Un continuo arrivo nella stazione ferroviaria di Milano Centrale. Sono siriani: padri e madri che hanno conquistato un ulteriore nodo di transito verso una meta finale di salvezza; bambini che, prematuramente, apprendono l’arte della resistenza. Sono storie di esseri umani che affrontano la prova di sciogliere il legame con le proprie radici, in nome del legame primario con la propria vita. Storie antiche come quelle narrate nell’Antico Testamento, in cui la condizione dello sradicamento assume il valore di una scelta esistenziale per un’umanità primaria che l’uomo contemporaneo occidentale sembra aver smarrito.
Da diversi mesi la rappresentazione mediatica racconta di questi profughi, i cui corpi si concentrano periodicamente, fino ad esplodere a volte, negli spazi della stazione, per poi essere trasferiti nei centri di accoglienza. Corpi che spesso turbano gli spettatori urbani locali, così come i cittadini diffusi delle comunità digitali, per l’evidenza carnale, palese, del disagio e della sofferenza provocate dai lunghi e difficili viaggi che hanno finora compiuto. “(…) la carne non è oscena, ma ci vuole molta poesia per raccontarla (…)” scriveva Roland Barthes. La poesia sembra riecheggiare nelle parole dei responsabili di Fondazione Albero della Vita, mentre ripercorrono le tappe del processo che li ha condotti al progetto di sostegno psicosociale ai profughi siriani di transito a Milano.
Famiglie erranti (full article_qcodemag)
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